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15/22 marzo, ore 10:30. Quando si spalanca la porta ed entra nella stanza un ragazzo in giacca scura, quasi schiacciato da quattro guardie corpulente, non parte nessun applauso. Per un attimo quaranta studenti, dottorandi e perfezionandi rimangono muti, immobilizzati dall’entusiasmo che emana quella piccola figura che si dirige rapida verso la sedia dal quale interverrà per il seminario di “Criminalità internazionale”. Tutto si frantuma come un cristallo quando il clap clap di un funzionario spezza il silenzio: subito l’applauso si propaga per la Sala Azzurra, una delle più prestigiose aule della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Roberto Saviano appare in scena così, con passo sicuro e disinvolto. È evidentemente cosciente delle proprie capacità di oratore, ma ancor più lo è dei contenuti del suo discorso, lui che – primo caso nella storia – a soli 31 anni ha già partecipato a due “Venerdì del Direttore” presso la Scuola Normale. Nella sua scorta si avverte invece un certo nervosismo: le facce sono tese, controllano ogni movimento dei partecipanti e si lanciano occhiate e indicazioni. Deve passare più di un’ora perché i volti dei militari si rilassino: solo allora sorrido accorgendomi che gli sguardi non si soffermano più su movimenti sospetti, ma vengono distratti dal passaggio di una bella ragazza.

Roberto Saviano prende la parola e racconta di come la criminalità organizzata sia sempre meno criminale e sempre più organizzata. Il petrolio bianco – dice, riferendosi evidentemente alla cocaina – sta cambiando gli equilibri economici di molti Paesi nel mondo, e fa un cenno al Messico, diventato una “narcodemocrazia” che sta vivendo una cosiddetta “turbocrescita” proprio grazie al traffico della coca. “Buona parte della stessa geopolitica potrebbe essere riconsiderata in base al narcotraffico” commenta. E parla di Obama, che ha stanziato più soldi per le indagini sul narcotraffico che non su quelle inerenti al terrorismo, proprio perché – evidentemente – ritiene questo problema decisamente più serio e concreto.

Ed è a questo punto che il discorso di Saviano ci fa percorrere migliaia di chilometri per tornare in Italia: “Salvatore Mancuso,” sorride amaramente lo scrittore “trafficante colombiano di origine italiana, dice sempre che ‘la pianta della coca è molto strana: perché ha le foglie in Sudamerica, ma le radici in Italia’”. “Ne è una prova” prosegue “ il fatto che tutte le mafie internazionali considerano quelle italiane come gli interlocutori principali”.

Unica possibilità di sconfiggere il traffico internazionale del petrolio bianco sembrerebbe, a questo punto, la depenalizzazione: la stessa redazione dell’Economist sostiene da vent’anni che la vendita controllata delle sostanze stupefacenti potrebbe portare numerosi vantaggi, specie dopo che è stato dimostrato il totale fallimento del proibizionismo.

“Ma allora cosa si può fare contro la mafia?” chiedono sconcertati i volti dei ragazzi che ascoltano lo scrittore. Saviano sembra cogliere la domanda: “Bisognerebbe accendere più luci sul fenomeno mafioso, specie su quello che è sempre rimasto più all’ombra: i siciliani erano abituati già da tempo ad avere a che fare con i media, ma la Camorra no ed ha risentito molto dell’attenzione posta nella Campania ultimamente”. “Se i giornali nazionali spostassero la redazione nel napoletano” garantisce Saviano “si avrebbero giornali totalmente diversi da quelli che leggiamo tutti i giorni. Si avrebbe maggiore informazione su fatti gravissimi che, oggi, sono relegati a qualche piccolo giornale provinciale, scritti da cronisti coraggiosi ma, purtroppo, spesso non troppo abili all’analisi del fenomeno”.

La Camorra, infatti, è molto attenta all’informazione: attraverso una rapida rassegna dei titoli dei principali giornali campani, Saviano fa osservare quanto sia evidente l’influenza dei boss. È sufficiente ascoltare la chiamata di Michele Zagaria e Antonio Iovine al giornalista Carlo Pascarella, allora al Corriere di Caserta, per capire quale aria giri nelle redazioni dei giornali. I due boss latitanti, uno dopo l’altro, si lamentano in maniera vagamente minacciosa con l’incredulo Pascarella, sostenendo che non sia “un giornalista serio” in quanto scrive di guerre non vere tra le loro famiglie.

Dopo ogni omicidio di Camorra, la tendenza è quella di diffamare la vittima per far sì che la sua morte venga accettata senza problemi dalla comunità. Si utilizzano tutte le strategie: l’accusa di pedofilia, di traffico d’armi o addirittura di appartenere alla stessa Camorra. Così accadde persino con don Peppe Diana, eliminato nel 1994 dal clan dei Casalesi, sotto l’impero di Francesco Schiavone (detto Sandokan), accusato di esser stato a letto con due donne solo perché era uscita su un giornale una sua foto mentre abbracciava due scout.

Ma questi giornali non sono solamente i portavoce della Camorra, creano anche un immaginario di successo: si pensi a Nunzio De Falco che, per esempio, condannato come mandante dell’assassinio di don Peppe Diana, nei titoli del Corriere di Caserta è definito “re degli sciupafemmine”, quasi una nuova icona pop.

A questo punto si salta a scherzare sull’antropologia mafiosa: il giovane scrittore ride a ripensare all’intercettazione di Roberto Settineri, ambasciatore dei clan a Miami, che parla con un interlocutore a Palermo e gli canta – con la melodia de Il Padrino – “Parla ben piano che nessuno sentirà!”. I film di mafia più che portare le usanze mafiose nel cinema, hanno creato dei modelli che stanno avendo un incredibile successo nella realtà. Lo stesso termine “padrino” non veniva utilizzato dai clan di mafia prima dell’avvento dell’omonimo film.

La cultura pop penetra nell’immaginario mafioso e lo arricchisce di particolarità curiose: “I più giovani mafiosi vestono” dice Saviano sgranando gli occhi e gesticolando con la mano “come i tronisti di Maria de Filippi!”. La platea ride.

Sebbene la giurisprudenza italiana sia la più avanzata nel trattare i fenomeni mafiosi (si pensi solamente che né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Germania né in Spagna esiste il reato di associazione mafiosa), nel nostro Paese non si fa ancora abbastanza per lottare contro quest’organizzazione criminale, che sta tendendo sempre più a legalizzarsi e infiltrarsi nelle strutture istituzionali, dove può radicare indisturbata e riportare nella legalità i frutti di attività illecite (si pensi al riciclaggio di denaro sporco svolto – secondo le indagini – da Scaglia, il fondatore di Fastweb).

La Camorra, al di là delle guerre di potere, si comporta come una vera e propria impresa moderna: il suo scopo è vendere la maggior quantità di prodotto e tagliare i costi di produzione. La cura che essa riserva all’immagine è poi emblematica della sua evoluzione all’interno di un sistema economico in cui i confini della legalità si fanno sempre più labili. Promossa come l’impresa più potente d’Italia, con un fatturato annuo pari a 40.000 milioni di euro, la crescita della Camorra deve essere fermata prima che sia troppo tardi.

di Enrico Santus

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